martedì 10 dicembre 2013

Rip Van Winkle

di Washington Irving


Il seguente racconto fu rinvenuto tra le carte del defunto Diedrich Knickerbocker, un vecchio gentiluomo di New York vivamente interessato alla storia olandese della provincia e alle usanze dei discendenti degli antichi coloni. Tuttavia, le sue ricerche storiche non si svolsero tanto tra i libri quanto tra la gente, perché i primi, purtroppo, erano tristemente scarni di notizie rispetto ai suoi argomenti preferiti; e si era invece accorto che i vecchi abitanti di un borgo cittadino, e soprattutto le loro mogli, avevano un ricco repertorio di leggende, di valore inestimabile per la storia. Tutte le volte che gli capitava perciò di incontrare un’autentica famiglia olandese, comodamente insediata in una fattoria dal tetto basso, all’ombra di un frondoso sicomoro, la considerava alla stregua di un libriccino stampato a caratteri gotici, ben chiuso da un fermaglio, e la studiava con lo zelo di un topo di biblioteca.
Il frutto di queste ricerche fu una storia della provincia sotto il governatorato olandese, pubblicata alcuni anni fa. Diverse sono stati i giudizi sul valore letterario di quest’opera che, a dire il vero, non è gran cosa. Il suo merito principale consiste nella scrupolosa accuratezza che, al primo apparire del libro, suscitò in realtà parecchi dubbi, ma che è stata poi ampiamente riconosciuta, tanto da essere ormai ammesso in tutte le collezioni storiche come testo dall’autorità indiscussa.
Il vecchio gentiluomo morì poco dopo la pubblicazione del volume. Adesso che è morto e sepolto, non può certo nuocere alla sua memoria dire che avrebbe potuto utilizzare meglio il suo tempo con opere di maggior peso. In questa passione, egli era comunque incline a fare di testa sua e sebbene, agli occhi di chi gli stava vicino, ogni tanto facesse una gran confusione e alcuni amici per i quali provava profonda deferenza e affetto ne avessero l’animo rattristato, i suoi errori e le sue follie sono tuttavia ricordati «più con dolore che con ira»3 e s’incomincia a credere che non avesse mai avuto l’intenzione di nuocere o di offendere. Ma comunque il suo ricordo venga giudicato dai critici, è comunque caro a molte persone la cui opinione positiva ancora conta qualcosa. In particolar modo, a certi pasticceri che sono arrivati al punto di imprimere la sua effigie sulle torte di Capodanno, offrendogli in questo modo la possibilità di essere immortale, un po’ come se venisse effigiato sulla medaglia di Waterloo o su un soldino della Regina Anna.

Chiunque abbia risalito il corso dell’Hudson ricorderà sicuramente i monti Kaatskill. Sono una propaggine isolata del grande gruppo degli Appalachiani e si scorgono in lontananza, a ovest del fiume, raggiungere maestose altezze e dominare la regione circostante. Ogni mutamento di tempo, di stagione, addirittura ogni ora del giorno, realizzano una variazione nei magici colori e negli aspetti di queste montagne, che da tutte le brave donne di casa sono perciò considerate un ottimo barometro. Quando il tempo è soleggiato e stabile, si ammantano di azzurro e di porpora e stagliano il loro profilo superbo sullo sfondo del limpido cielo serale; ma a volte, quando il resto del paesaggio è sereno, hanno sopra alla vetta un cappello di nuvole grigie che, ai raggi del sole che tramonta, s’infuocano e si accendono come una corona di gloria.
Ai piedi di queste montagne incantate, il viaggiatore si sarà imbattuto talvolta in un esile filo di fumo che si alzava da un villaggio i cui tetti di assi di legno risaltano tra gli alberi, là dove l’azzurro dell’altipiano sfuma nel verde fresco del paesaggio più vicino. È un piccolo villaggio molto antico, costruito da alcuni coloni olandesi agli albori della provincia, quando il buon Peter Stuyvesant (riposi in pace!) aveva appena iniziato a governare; e solo pochi anni addietro esistevano ancora alcune dimore dei primi abitanti, tirate su con mattoncini gialli importati dall’Olanda, con le finestre provviste di grate e i frontoni triangolari, sormontati da banderuole.
In questo stesso villaggio e in una di queste case (che, a dire il vero, era purtroppo rovinata dal tempo e battuta dalle intemperie) viveva, molti anni or sono, quando il paese era ancora una provincia della Gran Bretagna, un poveraccio buono e semplice che si chiamava Rip van Winkle.
Discendeva da quel van Winkle che si distinse per il suo valore ai tempi cavallereschi di Peter Stuyvesant e che lo seguì nell’assedio di Fort Christina. Egli aveva però ereditato ben poco del carattere fiero del suo progenitore. Ho già fatto notare che era un tipo semplice e di buon cuore; ed era un vicino servizievole e un marito sottomesso, tiranneggiato dalla moglie. Anzi, era proprio a quest’ultima circostanza che si poteva far risalire il carattere mite che gli aveva procurato tanta popolarità, perché sono appunto gli uomini che in casa sono costretti ad obbedire a una moglie bisbetica quelli che, all’esterno, sono più deferenti e docili. Il carattere è indubbiamente reso morbido e malleabile dal bollente inferno delle sofferenze domestiche, dato che la strigliata di una moglie vale quanto tutte le prediche del mondo per indurre alla virtù della pazienza e della tolleranza. Sotto certi aspetti, quindi, una moglie bisbetica è da considerarsi una relativa benedizione e, in tal senso, Rip van Winkle era benedetto tre volte.
Era sicuramente il beniamino di tutte le massaie del villaggio, che – com’è solito fare il gentil sesso – nelle discussioni familiari parteggiavano per lui e non mancavano di addossare tutta la colpa a madama Van Winkle ogni volta che parlavano di loro nel corso delle ciance serali. Anche i bambini del villaggio lo accoglievano con grida di gioia ogni volta che lo vedevano. Li aiutava nei loro giochi, fabbricava oggettini e giocattoli, insegnava loro a far volare l’aquilone e a tirare le biglie, narrava lunghe storie piene di fantasmi, streghe e indiani. Quando bighellonava per il villaggio, era sempre circondato da uno stuolo di bambini che lo tiravano per la giacca, gli si aggrappavano alla schiena, gli facevano continuamente scherzi in quantità e non c’era nessun cane dei dintorni che gli abbaiasse.
Il difetto nel carattere di Rip era un’incontrastabile avversione per qualsiasi lavoro utile. E non gli facevano certo difetto l’impegno o la costanza: sarebbe rimasto seduto, senza lamentarsi, tutto il santo giorno su una roccia a pescare, reggendo una canna lunga e pesante come la lancia di un tartaro, anche senza l’incoraggiamento di un singolo pesciolino che abboccasse all’amo. Avrebbe portato il fucile in spalla per ore e ore, attraversando faticosamente boschi e paludi, su e giù per monti e per valli, per sparare a uno scoiattolo o a un piccione selvatico. Mai si sarebbe rifiutato di aiutare un vicino, anche nel lavoro più ingrato, ed era sempre in prima fila nelle allegre riunioni di campagna in cui si pelava il granturco o si alzavano muretti di pietre. Anche le donne del villaggio si servivano di lui per le loro commissioni e gli facevano fare quei lavoretti occasionali dei quali i mariti, meno disponibili, non si volevano prendere cura. Rip, insomma, era sempre pronto a dedicarsi agli affari degli altri, ma non ai suoi e per quanto riguardava i doveri verso la famiglia e i lavori necessari a mandare avanti la fattoria, riteneva addirittura impossibile occuparsene.
Secondo lui era infatti inutile applicarsi al proprio appezzamento, perché era il più nefasto dell’intero paese; tutto vi faceva una brutta fine e l’avrebbe fatta suo malgrado. Gli steccati cadevano continuamente a pezzi, la mucca si perdeva oppure finiva tra i cavoli; nel suo campo la gramigna cresceva sicuramente più in fretta che altrove; se doveva fare un lavoro all’aperto, poteva star sicuro che la pioggia sarebbe caduta a catinelle. Perciò, sotto la sua gestione, la proprietà che aveva ereditato era finita male, un acro dopo l’altro, fino a ridursi a un semplice appezzamento coltivato a granturco e a patate: malgrado ciò restava sempre la fattoria più malridotta dei dintorni.
Anche i suoi figli erano cenciosi e selvatici come figli di nessuno. Il piccolo Rip, un monello tale e quale a lui, prometteva di ereditare non solo gli indumenti smessi, ma anche le abitudini paterne. Lo si vedeva trotterellare sempre come un puledro tra i piedi della madre, con un paio di vecchie brache del padre, che si sforzava di reggere con una mano, come una signora elegante con lo strascico, quando è brutto tempo.
Tuttavia, Rip van Winkle era un cuor contento dall’indole sciocca e ottimista e prendeva il mondo così come viene: mangiava pane bianco o nero, purché fosse possibile ottenerlo con il minimo della fatica e preferiva morire di fame per un soldo piuttosto che faticare per una sterlina. Se lasciato in pace, avrebbe trascorso beatamente la vita senza far niente, ma la moglie continuava a stordirgli il capo, rimproverandolo per l’indolenza, la trascuratezza e la rovina che faceva ricadere sulla famiglia. Giorno e notte, notte e giorno agitava la lingua senza posa e qualsiasi cosa Rip dicesse o facesse provocava un nuovo torrente di rimproveri coniugali. Lui aveva un solo modo per reagire a quelle sfuriate: un modo che, utilizzato con regolarità, si era trasformato in abitudine. Si stringeva nelle spalle, scuoteva la testa, alzava gli occhi al cielo, ma non pronunciava una sillaba. Questo, però, scatenava una nuova raffica della moglie e, a quel punto, egli era ben lieto di ritirarsi in buon ordine rifugiandosi all’esterno della casa, in realtà la sola parte che un marito tormentato dalla moglie possieda.
Il solo compagno domestico di Rip era il suo cane Wolf, tiranneggiato quanto il padrone perché madama Van Winkle li considerava compagni di ozi, e guardava addirittura la bestia di malocchio, come se fosse colpa sua se il padrone deviava così spesso dalla retta via. Vero è che, in materia di onore canino, era l’animale più coraggioso che avesse mai scorrazzato per i boschi, ma qual è il coraggio in grado di sopportare il tormento continuo e ossessivo di una lingua di donna? Appena entrava in casa, Wolf si faceva mogio mogio e, con la coda tra le gambe, si aggirava con l’aria sospettosa del ladruncolo, tenendo sempre d’occhio madama Van Winkle e, al primo fremito del manico della scopa o del mestolo, usciva a precipizio lanciando acuti guaiti.
Gli anni di matrimonio passavano e, per Rip van Winkle, le cose si mettevano sempre peggio: un’indole acida non si addolcisce con l’età e una lingua affilata è il solo strumento tagliente che, con l’uso, migliori il filo. Ormai, allorché veniva scacciato da casa, soleva consolarsi frequentando una specie di circolo permanente di saggi, filosofi e altri perdigiorno del villaggio, che tenevano le loro riunioni su una panca dinanzi a una piccola locanda che aveva per insegna un colorito ritratto di sua maestà Giorgio III. Se ne stavano seduti all’ombra, nelle lunghe giornate d’estate, e chiacchieravano pigri dei pettegolezzi del villaggio oppure, mezzi addormentati, raccontavano storie senza capo né coda. Ma un uomo di stato avrebbe trovato grandissimo giovamento ascoltando le animate discussioni che si svolgevano a volte quando si ritrovavano per le mani un vecchio giornale dimenticato da un viandante di passaggio. Con grande solennità ne ascoltavano i contenuti, letti con voce strascicata da Derrick van Bummel, il maestro di scuola, un ometto azzimato, colto e vispo, che non si lasciava intimidire nemmeno dalla più lunga delle parole del vocabolario; e con quanta eloquenza disquisivano degli eventi pubblici accaduti qualche mese prima!
Le opinioni di questa combriccola erano tenute sotto controllo da Nicholaus Vedder, patriarca del villaggio e gestore della locanda: dal mattino alla sera se ne stava seduto accanto alla porta e si muoveva quel tanto che bastava per scansare il sole e proteggersi all’ombra di un
grande albero. Dai suoi spostamenti, i vicini erano in grado di dire l’ora con la stessa precisione di chi consulta una meridiana. Era raro sentirlo parlare, ma fumava incessantemente la pipa. Anche così i suoi affiliati (perché ogni grand’uomo ha i suoi affiliati), lo comprendevano benissimo e riuscivano sempre a intuire il suo pensiero. Si era notato che ogni volta che non gradiva qualcosa di ciò che si leggeva o si raccontava, aspirava con veemenza, mandando rapidamente fuori il fumo con brevi boccate rabbiose; ma se, al contrario, la notizia gli garbava, allora inspirava il fumo lentamente e in tutta calma, soffiandolo fuori in placide nuvolette; a volte, poi, si toglieva la pipa di bocca e lasciava che il vapore profumato salisse in volute leggere intorno al naso, mentre annuiva serio con un cenno del capo, per manifestare la sua totale approvazione.
Ma la moglie dispotica sloggiò l’infelice Rip anche da questo rifugio: soleva infatti irrompere all’improvviso su quella pacifica riunione per dire a ciascuno il fatto suo. Neppure Nicholaus Vedder, quel regale personaggio, si salvava dalla lingua della terribile virago che gli rinfacciava senza indugi di incoraggiare il marito nelle sue oziose abitudini.
Ormai il povero Rip era quasi alla disperazione; per sfuggire al lavoro della fattoria e alle urla della moglie non aveva altra possibilità che imbracciare il fucile e andare a zonzo per i boschi. A volte si metteva seduto ai piedi di un albero per dividere il contenuto della sua sacca con Wolf che compiangeva come un compagno di sventura e di persecuzione. «Povero Wolf», diceva, «la tua padrona ti fa proprio fare una vita da cani! Non farci caso, amico mio: finché avrò vita, non ti verrà meno il compagno che ti difende!». Wolf scodinzolava, guardava pensoso il padrone e se i cani sono in grado di provare pietà, sono assolutamente convinto che contraccambiasse di cuore quei sentimenti.
In una bella giornata autunnale, durante una di queste passeggiate, senza rendersene conto Rip si era arrampicato faticosamente per raggiungere uno dei punti più elevati dei monti Kaatskill. Era tutto intento nel suo passatempo preferito – la caccia agli scoiattoli – e i colpi del suo fucile echeggiavano in quelle solitudini silenziose. Nel tardo pomeriggio, stanco e ansimante, si distese su un verde pendio florido di erbe montane che sormontava il ciglio di un precipizio. Da un varco tra gli alberi si dominava per molte miglia il terreno sottostante, lussureggiante di boschi. Laggiù, molto più in basso, scorreva immenso e placido l’Hudson maestoso, riflettendo un’occasionale nuvola purpurea, una vela ritardataria appisolata sulle acque limpide, per poi infine perdersi nell’azzurro altipiano.
Dall’altro lato s’apriva, stretta e profonda, una gola montana selvaggia e boscosa: sul fondo erano sparsi i massi caduti dalle rocce sovrastanti, che il riflesso del sole al tramonto riusciva a malapena a illuminare. Per un po’ Rip osservò pensoso la scena. Si andava facendo sera: le montagne cominciavano a proiettare sulle valli le lunghe ombre: capì che il buio l’avrebbe sorpreso molto prima di giungere al villaggio e, al pensiero di dover affrontare la furia di madama Van Winkle, sospirò profondamente.
Mentre si accingeva a scendere, udì una voce lontana che chiamava: «Rip van Winkle! Rip van Winkle!». Si guardò intorno, ma vide soltanto un corvo che volava solitario oltre la montagna. Pensò che si fosse trattato di un inganno della fantasia e riprese la discesa, quando nell’aria tranquilla della sera echeggiò lo stesso grido. «Rip van Winkle! Rip van Winkle!». Allora Wolf rizzò il pelo e, con un ringhio sordo, s’accucciò accanto al padrone, guardando spaventato giù nella valle. A quel punto Rip si sentì invadere da un vago senso di timore. Si volse ansiosamente in direzione della voce e scorse una strana figura che saliva a fatica tra le rocce, curva sotto il peso di un fardello che trasportava sul dorso. Si stupì vedendo un essere umano in un luogo così solitario e deserto; ma, supponendo che si trattasse di una persona del circondario che avesse bisogno d’aiuto, si affrettò a scendere per soccorrerlo.
Nell’avvicinarsi, fu ancora più sorpreso dall’aspetto eccentrico dello sconosciuto. Era un vecchio basso e tarchiato, con folti capelli irsuti e la barba brizzolata. Vestiva come un olandese del tempo antico, con una giacchetta stretta in vita da una cintura di cuoio, brache ampie il cui lato esterno era ornato da una fila di bottoni e che sbuffavano alle ginocchia. Portava sulla spalla un bel barilotto che sembrava pieno di liquore e fece cenno a Rip di avvicinarsi per aiutarlo a sostenerne il peso. Per quanto ritroso e un po’ diffidente verso questa nuova conoscenza, Rip ubbidì con la consueta sollecitudine e, aiutandosi l’uno con l’altro, i due si inerpicarono a stento lungo una stretta gola scavata dalle acque, probabilmente il letto asciutto di un corso d’acqua montano. Mentre salivano, di tanto in tanto Rip udiva uno strano rumore, un rotolio, come il rombo di un tuono lontano che sembrava provenire da una voragine o, piuttosto, da una spaccatura tra le rocce torreggianti dove li conduceva il ripido sentiero che stavano percorrendo. Si fermò per un istante, ma poi, pensando che si trattasse di uno di quegli improvvisi temporali che spesso si verificano in cima alle montagne, riprese il cammino. Oltrepassarono la spaccatura e giunsero in una piccola valle simile a un anfiteatro circondato da dirupi verticali, sovrastati dai rami degli alberi sporgenti che lasciavano appena intravedere stralci di cielo azzurro e le chiare nuvole della sera. Per tutto quel tempo Rip e il suo compagno si erano inerpicati in silenzio e, per quanto il primo fosse terribilmente curioso di sapere a che serviva portare un barilotto di liquore su per quelle montagne selvagge, tuttavia lo sconosciuto aveva nell’aspetto qualcosa di insolito e incomprensibile che ispirava soggezione ed escludeva la confidenza.
Entrando nell’anfiteatro gli si presentarono allo sguardo nuovi motivi di stupore. Al centro, su uno spazio pianeggiante, un gruppo di personaggi dalle sembianze oltremodo bizzarre giocava ai birilli. Erano vestiti tutti secondo una strana foggia straniera: alcuni indossavano un corto farsetto, altri una giacchetta e avevano alla cintura un lungo coltello; quasi tutti portavano brache fuori misura, simili a quelle della sua guida.
Anche i visi erano molto strani: uno aveva la testa grossa, un faccione e due occhi piccoli e porcini. Dalla faccia di un altro sembrava spuntare solo il naso e portava un cappello bianco a pan di zucchero decorato da una penna di gallo rossa. Tutti portavano barbe di varie fogge e di colori diversi. Fra tutti, uno sembrava il comandante. Era un vecchio gentiluomo robusto, con il viso segnato dal tempo; indossava un farsetto di pizzo, una cinta larga da cui pendeva una corta spada, un alto cappello piumato, calze rosse e scarpe coi tacchi alti, ornate di fiocchi di nastro. Vedendo quel gruppo Rip pensò alle figure di un vecchio quadro fiammingo visto nella sala di Don van Schaick, il parroco del villaggio, e che era stato portato dall’Olanda ai tempi dell’immigrazione.
Ciò che gli sembrò particolarmente bizzarro era il fatto che, sebbene fosse evidente che queste persone si stavano divertendo, mantenevano però un’espressione seria e un inspiegabile silenzio, dando vita, nell’insieme, alla più malinconica brigata che avesse mai visto. Il silenzio della scena era rotto soltanto dal rumore delle bocce che, ogni volta che rotolavano sul terreno, echeggiavano tra i monti con un sordo rombo di tuono.
Quando Rip e il suo compagno si avvicinarono, quelli smisero d’un tratto di giocare e li fissarono con occhi simili a quelli delle statue, con uno sguardo così strano e inespressivo che il bravuomo sentì un tuffo al cuore e le ginocchia fecero giacomo giacomo per la paura. Il suo compagno versò il contenuto del barilotto dentro grosse fiasche e poi, con un cenno, gli ordinò di offrirle alla compagnia. Egli obbedì tremando spaventato; quelli tracannarono il liquore in un silenzio di tomba per poi riprendere il loro gioco.
La paura e la soggezione di Rip pian piano diminuirono. Quando nessuno lo guardava, si avventurò persino ad assaggiare la bevanda e trovò che assomigliava molto a un eccellente gin olandese. Egli era per natura un’anima assetata e ben presto ebbe voglia di berne un altro goccetto.
Un sorso tira l’altro e le visite alla fiasca si susseguirono con tale frequenza che alla fine i sensi ne furono sopraffatti: davanti ai suoi occhi tutto prese a girare, gli cadde la testa e lui sprofondò nel sonno.
Quando si svegliò, si ritrovò sul poggio dal quale per la prima volta aveva scorto lo strano vecchio della valletta. Si strofinò gli occhi: era una bella mattina, piena di sole. Gli uccelli cinguettavano tra i cespugli e un’aquila volava in alto compiendo larghi giri attraverso la pura brezza di montagna. «Non avrò mica dormito qui tutta la notte!», pensò Rip. Ricordò quanto era accaduto prima che si addormentasse: l’uomo col barilotto di liquore, la spaccatura nella montagna, il selvaggio rifugio in mezzo alle rocce, la brigata dall’aspetto lugubre che giocava ai birilli e la fiasca…
«Oh! Quella fiasca! Quella fiasca maledetta!», pensò, «Che scusa inventerò per madama Van Winkle?».
Si guardò intorno, cercando il fucile, ma invece del suo fucile lucido e ben oliato, si trovò accanto un vecchio schioppo con la canna tutta arrugginita, il cane mezzo staccato e il calcio tarlato. Fu assalito dal dubbio che quei gaglioffi della montagna gli avessero giocato un brutto tiro: dopo averlo fatto ubriacare di acquavite, lo avevano derubato del fucile. Anche Wolf era scomparso, ma forse si era perso dietro uno scoiattolo o una pernice. Fischiò e lo chiamò per nome, ma inutilmente: l’eco ripeteva il fischio e il richiamo, ma non comparve nessun cane.
Si risolse a tornare sul luogo della partita giocata la sera prima, dicendosi che se avesse incontrato qualcuno della compagnia gli avrebbe chiesto notizie del cane e del fucile. Nell’alzarsi per mettersi in cammino sentì che tutte le giunture gli dolevano e che gli mancava la consueta agilità. «Questi giacigli di montagna non fanno per me», pensò, «e se questa scappatella mi dovesse relegare a casa con un attacco di reumi, avrò di che spassarmela con madama Van Winkle». Scese dal poggio con una certa difficoltà e trovò la gola che aveva risalito insieme al suo compagno la sera precedente; ma, con suo grande stupore, vi trovò uno spumeggiante torrentello montano che balzava di roccia in roccia e riempiva l’aria del suo gorgoglio. Trovò, tuttavia, il modo di arrampicarsi lungo i fianchi, aprendosi a fatica la strada tra le macchie di betulle, sassifraghe e noccioli, a volte inciampando oppure restando intrappolato tra le viti selvatiche che stendevano i viticci da un albero all’altro, formando una specie di rete sul suo cammino.
Raggiunse alfine il luogo dove la voragine tra le rocce conduceva all’anfiteatro; ma di tale pianoro non v’era alcuna traccia. Le rocce formavano un muro alto e impenetrabile al di sopra del quale il torrente si tuffava in mezzo a una cortina di schiuma evanescente, precipitando infine in un bacino largo e profondo che le ombre degli alberi circostanti facevano apparire quasi nero. Il povero Rip si fermò perplesso. Fischiò ancora per chiamare il cane; gli rispose soltanto il gracchiare di uno stormo di corvi oziosi che, appollaiati placidamente su un albero che sovrastava uno strapiombo illuminato dal sole, sembrava guardassero in basso beffandosi delle perplessità del poveruomo.
Che fare? La mattina era quasi trascorsa e Rip si sentiva allo stomaco i morsi della fame. Lo addolorava l’idea di abbandonare cane e fucile, aveva il terrore di trovarsi faccia a faccia con la moglie, ma l’idea di morire di fame tra le montagne proprio non gli andava giù. Scosse la testa, si mise in spalla lo schioppo arrugginito e, con il cuore pieno d’ansia e di preoccupazione, si diresse verso casa. Mentre si appropinquava al villaggio incontrò una quantità di persone, ma non riconobbe nessuno, il che lo sorprese alquanto perché era sempre stato convinto di conoscere tutti nei dintorni. Anche i loro vestiti erano di una foggia diversa da quella solita. Tutti, vedendolo, lo fissavano con la stessa espressione sorpresa, e si toccavano il mento allo stesso modo. Il costante ripetersi di questo gesto indusse Rip a fare involontariamente altrettanto e, con grande meraviglia, scoprì che la sua barba era cresciuta di un palmo!
Era ormai giunto alle prime case del villaggio. Gli si attaccò alle calcagna uno stuolo di strani bimbi che strillavano e indicavano col dito la sua lunga barba grigia. Al suo passaggio, anche i cani gli abbaiavano e non ce n’era uno in cui ravvisasse qualcosa di familiare. Anche il villaggio era cambiato: era più grande e più popoloso. Vide file di case che non aveva mai notato e quelle a lui note erano scomparse. Sulle porte c’erano nomi sconosciuti, alle finestre visi sconosciuti: tutto era sconosciuto. Gli vacillò il coraggio: incominciò a dubitare che lui, o il mondo intorno, fossero vittime di un sortilegio. Questo era sicuramente il suo villaggio natio, dal quale si era mosso soltanto il giorno prima. Là svettavano i monti Kaatskill. Laggiù, in lontananza, scorreva l’Hudson d’argento: ogni collina e ogni altopiano si trovava esattamente dov’era sempre stato. Rip era perplesso e smarrito. «Che guaio, ieri sera quella fiasca», pensò, «per la mia povera testa!».
Con una certa difficoltà trovò la strada di casa e vi si avvicinò silenzioso tutto tremante, aspettandosi di udire da un momento all’altro la voce stridula di madama Van Winkle. La casa era andata in rovina: il tetto sfondato, le finestre rotte, le porte divelte dai cardini. Un cane mezzo morto di fame, che sembrava Wolf, se ne stava rintanato in disparte. Rip lo chiamò per nome, ma il cagnaccio ringhiò mostrando i denti e si allontanò per i fatti suoi. Questa fu una batosta veramente crudele. «Persino il mio cane mi ha dimenticato!», si lagnò il povero Rip.
Entrò nella casa che, a dire il vero, madama Van Winkle aveva sempre tenuto pulita e in ordine. Era vuota, squallida e apparentemente disabitata. Tanta desolazione gli fece persino superare le sue paure coniugali: chiamò ad alta voce la moglie e i bambini… Le stanze deserte riecheggiarono per un istante la sua voce, poi tutto fu di nuovo silenzio.
Allora uscì di corsa e si precipitò verso il suo vecchio rifugio – la locanda del villaggio – ma anche questa non c’era più. Al suo posto si ergeva un edificio di legno grande e sconnesso, con le ampie finestre spalancate, alcune delle quali avevano i vetri rotti, risistemati alla meglio con vecchi cappelli e panciotti a chiudere i buchi. Sopra la porta era dipinta l’insegna: “Albergo dell’Unione, proprietario: Jonathan Doolittle”. Al posto del grande albero che proteggeva la piccola e tranquilla locanda olandese di un tempo, vide un lungo palo nudo, con in cima qualcosa che sembrava una papalina da notte rossa, dal quale sventolava una bandiera su cui era raffigurato uno strano insieme di stelle e di strisce. Gli era tutto nuovo e incomprensibile. Riconobbe tuttavia sull’insegna il viso rubizzo di Re Giorgio, sotto il quale aveva così spesso fumato pacificamente la pipa. Ma persino questo aveva subito una singolare trasformazione. La giacca rossa era stata sostituita con un’altra azzurra, guarnita di pelle; in mano, invece dello scettro, impugnava una spada, la testa era adorna di un cappello a tricorno; e sotto, a caratteri cubitali, era scritto “GENERALE WASHINGTON”.
Presso la porta stazionava come di consueto una folla di contadini, ma nessuno che Rip riconoscesse. Sembrava cambiato persino il carattere delle persone. Regnava tra quella gente, al posto della abituale flemma sonnolenta, un affaccendarsi polemico e agitato. Cercò invano il saggio Nicholaus Vedder, con il suo faccione, il doppio mento, la lunga e onesta pipa che emetteva sbuffi di fumo invece di oziosi discorsi.
Oppure Van Bummel, il maestro che elargiva generosamente a tutti il contenuto di un vecchio giornale. Al loro posto, un tipo dall’aspetto bilioso, con le tasche rigonfie di volantini, arringava con veemenza la folla sui diritti dei cittadini, sulle elezioni, sui membri del Congresso, sulla libertà, su Bunker’s Hill, sugli eroi del Settantasei… Tutte cose che per Rip van Winkle erano puro gergo babelico.
La sua comparsa con quel barbone brizzolato, lo schioppo arrugginito, l’insolito vestito e quel codazzo di donne e di bimbi alle calcagna, attirò ben presto l’attenzione di quei politicanti da taverna. Gli si fecero intorno in gruppo, esaminandolo da capo a piedi con grande curiosità.
L’oratore si affrettò ad andargli incontro e, dopo averlo tirato in disparte, gli domandò per chi votava. Rip lo guardò con occhi imbambolati. Un altro ometto, piccolo di statura ma molto indaffarato, lo tirò per un braccio e, mettendosi in punta di piedi, gli chiese in un orecchio se fosse federale o democratico. Ancora una volta Rip non riuscì a capire la domanda. Ecco allora che un vecchio gentiluomo, con un cappello a tricorno e l’aria molto fiera e sicura di sé, si fece largo sgomitando tra la folla e, piazzatosi davanti a Rip van Winkle, con una mano sul fianco e l’altra posata sul pomo del bastone da passeggio, gli domandò in tono severo – mentre quegli occhi acuti e il cappello a tre punte gli penetravano, per così dire, fin nel fondo della sua anima – che cosa lo inducesse a venire alle elezioni con un fucile in spalla e una folla alle calcagna. Intendeva forse fomentare una sommossa nel villaggio? «Ahimé! Signori miei», gridò Rip tutto sconvolto, «io sono un poveruomo, sono pacifico, un nativo del posto, e suddito fedele del re, che Dio lo benedica!».
A questa risposta scoppiò tra i presenti un grande tumulto. «Un conservatore! Un conservatore! Una spia! Un profugo! Picchiatelo! Cacciatelo via!». Con molta difficoltà, l’uomo borioso con il cappello a tricorno ristabilì la calma e, assunta un’espressione dieci volte più severa, domandò di nuovo allo sconosciuto colpevole che cosa fosse venuto a fare e chi cercasse. Il poveretto confermò umilmente che non aveva cattive intenzioni e che era venuto soltanto per cercare alcuni suoi vicini che erano soliti trascorrere il tempo nei pressi dell’osteria.
«Or dunque chi sono? Fuori i nomi».
Rip rifletté un momento, poi chiese: «Dove è Nicholaus Vedder?».
Vi fu un momento di sospensione, poi un vecchio rispose con un filo di voce tremante: «Nicholaus Vedder? Suvvia! È morto e sepolto da diciotto anni! C’era una lapide di legno nel cortile della chiesa che raccontava tutta la sua vita, ma adesso è marcita e non c’è più neppure quella».
«Dov’è Brom Dutcher?»
«Oh, è andato sotto le armi all’inizio della guerra: alcuni dicono che sia rimasto ucciso nell’assalto di Stony Point, altri che sia annegato durante un uragano ai piedi dell’Antony’s Nose. Non so… Non è più tornato».
«Dov’ è Van Bummel, il maestro?»
«Anche lui è partito per la guerra, è stato un grande generale della milizia. Ora è al Congresso».
Rip sentì un mancamento nell’udire i dolorosi cambiamenti avvenuti nella sua casa e tra gli amici e nell’essersi ritrovato così solo al mondo.
Inoltre, ogni risposta gli faceva girare la testa. Sembrava che si riferisse a un tempo lontanissimo e ad argomenti che non riusciva a comprendere: la guerra, il Congresso, Stony Point… Non ebbe più il cuore di chiedere informazioni su altri conoscenti, ma gridò disperato: «Non c’è nessuno qui che conosca Rip van Winkle?»
«Oh, Rip van Winkle!», esclamarono due o tre. «Ma, certo! Eccolo laggiù, Rip van Winkle, appoggiato a quell’albero».
Rip guardò e vide il sosia perfetto di se stesso, quando si era recato in montagna: a quanto sembrava, altrettanto pigro e cencioso! A questo punto, il poveraccio era completamente fuori di sé. Dubitava della propria identità e si chiedeva se era proprio lui o un altro. Al colmo del suo smarrimento, l’uomo con il tricorno gli chiese chi era e come si chiamava.
«Dio solo lo sa!», esclamò, non sapendo più cosa pensare. «Io non sono io… sono qualcun altro… sono quello laggiù… no… quello è un altro che è entrato nei miei panni… Io ero io la notte scorsa, ma poi mi sono addormentato sulla montagna… mi hanno cambiato il fucile e tutto si è trasformato… e io sono cambiato e non so dirvi né come mi chiamo né chi sono!».
I presenti cominciarono a guardarsi e a scuotere il capo, facendosi cenni d’intesa e battendosi leggermente le dita contro la fronte. Valutarono l’opportunità di mettere al sicuro il fucile per impedire al vecchio di far del male a qualcuno e, a questa semplice supposizione, l’uomo severo con il tricorno si ritirò con una certa fretta. In quel difficile frangente, una giovane donna, fresca e bella, si fece largo tra la folla per dare un’occhiata all’uomo con la barba grigia. Teneva in braccio un bimbo paffuto che, impaurito dall’aspetto di Rip, scoppiò a piangere. «Zitto, Rip», disse la donna, «zitto, sciocchino: quel vecchietto non vuol farti niente di male». Il nome del bimbo, qualcosa nel modo di fare della madre, il tono della voce, risvegliarono nella mente del poveraccio una serie di ricordi.
«Come vi chiamate, buona donna?», le domandò.
«Judith Gardenier».
«E vostro padre come si chiamava?»
«Ah, poveretto, si chiamava Rip van Winkle: vent’anni fa se n’è andato di casa con il fucile e da allora non abbiamo più avuto sue notizie. Il cane è tornato senza di lui, ma nessuno è in grado di dire se si sia sparato o se gli indiani se lo siano portato via. A quel tempo ero soltanto una bambina».
Rip aveva ancora una domanda da rivolgere, ma lo fece con voce tremante: «Dov’è vostra madre?»
«Oh, è morta poco tempo fa, le si è rotto un vaso sanguigno in un accesso di collera contro un venditore ambulante del New England».
Da questa notizia, almeno, stillò un po’ di conforto. Il brav'uomo non poté trattenersi oltre: strinse a sé la figlia e il bambino, gridando: «Sono io tuo padre! Ero il giovane Rip van Winkle una volta, adesso sono il vecchio Rip van Winkle! Nessuno riconosce il povero Rip van Winkle!».
Tutti rimasero stupiti, finché una vecchia uscì dalla folla barcollando e, riparandosi gli occhi dal sole con la mano, lo scrutò attentamente in viso qualche istante, poi esclamò: «Ma sicuro! È Rip van Winkle! È proprio lui! Bentornato a casa, vecchio vicino! Ma dove siete stato per questi venti, lunghi anni?».
La storia di Rip fu presto raccontata perché quei venti anni erano passati per lui in una sola notte. Quando lo udirono, i vicini lo guardarono esterrefatti e si vide che alcuni ammiccavano tra loro con espressione ironica e l’uomo importante con il cappello a tre punte, che, cessato l’allarme, era risceso in campo, piegò gli angoli della bocca e scosse il capo. Al che, nell’assemblea, tutti scossero il capo.
Comunque, si decise di accogliere il parere del vecchio Peter Vanderdonk che videro arrivare lemme lemme lungo la strada. Questi era un discendente dell’omonimo storico che scrisse una delle prime cronache della provincia. Peter era l’abitante più anziano del villaggio ed era molto esperto degli eventi soprannaturali e delle leggende del circondario. Riconobbe immediatamente Rip e confermò la sua storia con sua grande soddisfazione. Assicurò la compagnia che era un fatto storicamente accertato e tramandato dal suo antenato, lo storico, che i monti Kaatskill fossero infestati di strane creature. Si diceva che il grande Hendrick Hudson, il primo a scoprire il fiume e la regione, vi tenesse ogni vent’anni una specie di veglia, insieme all’equipaggio dell’Half Moon, e che questo era il modo in cui gli era concesso di tornare sui luoghi della sua impresa per vigilare sul fiume e sulla grande città che portava il suo nome. Una volta suo padre li aveva visti, vestiti dei loro vecchi costumi olandesi, giocare a birilli in una caverna sul monte e lui stesso, in un pomeriggio estivo, aveva sentito il rumore delle loro bocce, simile a un lontano brontolio di tuono.
Per farla breve, la combriccola si divise e tornò a occuparsi delle elezioni che erano tanto più importanti. La figlia condusse Rip a vivere con lei: aveva una casa comoda e bene arredata e per marito un contadino allegro e robusto nel quale Rip riconobbe uno dei ragazzetti che gli si arrampicavano sempre sulla schiena. In quanto al figlio ed erede di Rip, il sosia che aveva visto appoggiato all’albero, fu messo a lavorare nella fattoria, ma dimostrava l’inclinazione, sicuramente ereditaria, a occuparsi solo delle sue faccende.
Rip ritornò alle vecchie passeggiate e alle antiche abitudini. Ben presto si riunì con molti degli amiconi di un tempo, tutti piuttosto malridotti per il passare degli anni, ragion per cui preferì farsi nuovi amici tra la generazione emergente, dei quali divenne presto il beniamino. Non avendo occupazioni in casa ed essendo giunto all’età beata nella quale un uomo può starsene liberamente in ozio, riprese il proprio posto sulla panca accanto alla porta della locanda, riverito come uno dei patriarchi del villaggio perché conosceva tutti gli eventi dei vecchi tempi “prima della guerra”. Ci volle un bel po’ prima che fosse in grado di partecipare alle chiacchiere quotidiane e prima che riuscissero a fargli capire gli strani avvenimenti che si erano verificati durante il suo lungo sonno: c’era stata una rivoluzione, il paese si era liberato dalla sudditanza della vecchia Inghilterra e lui, invece di essere un suddito di Sua Mastà Giorgio III, era un libero cittadino degli Stati Uniti. Rip, in realtà, non era interessato alla politica; i cambiamenti negli stati e negli imperi gli facevano ben poca impressione; c’era un solo tipo di oppressione che lo aveva fatto lungamente penare: il governo delle sottane. Fortunatamente si era concluso: aveva liberato il collo dal giogo matrimoniale ed era libero di entrare e uscire come gli pareva, senza temere la tirannia di madama Van Winkle. Tuttavia, ogni volta che la nominavano, scuoteva la testa, si stringeva nelle spalle e levava gli occhi al cielo: il che si poteva interpretare come segno di accettazione del proprio destino, o di gioia per essersene liberato.
Soleva raccontare la sua storia a ogni straniero che sostava all’albergo di Mr Doolittle. Da principio si notò che tutte le volte che la raccontava variava qualche particolare, il che era senza dubbio dovuto al fatto di essersi risvegliato da poco. Alla fine, si fissò sulla versione che vi ho riferito e non vi era uomo, donna o bambino che non la conoscesse a memoria. Alcuni avevano ancora la presunzione di mettere in dubbio la sua veridicità e insistevano nel dire che Rip era uscito di cervello che, in verità, era sempre stato il suo punto debole. I vecchi olandesi, però, gli accordavano una fiducia quasi universale. Ancora oggi, ogni volta che nei pomeriggi d’estate odono il rombo di un tuono provenire dai monti Kaatskill, dicono che Hendrick Hudson e la sua ciurma stanno giocando una partita a birilli e tutti i mariti del circondario oppressi dalla tirannia delle mogli, allorché la loro vita si fa particolarmente difficile, aspirano ad attingere dalla fiasca di Rip Van Winkle il sorso che dona il riposo.

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